La Sicilia era una terra che avevo sempre amato e che non avevo mai dimenticato negli anni in cui ero emigrata al nord con la mia famiglia per cercare lavoro.

Ero cresciuta a Torino, imbastardendo le mie origini mediterranee con un accento che non mi apparteneva, lontana dai luoghi comuni di una piccola città in cui tutti spiavano tutti, senza neppure il pudore di nascondersi. Lì anche le finestre avevano gli occhi e i muri orecchie per ascoltare il bisbiglio più sottile. Non fu facile per me, appena ventenne, in un posto in cui non conoscevo più nessuno, in una città in cui la donna che fumava per strada non era ben vista.

Erano gli anni Ottanta, i bellissimi anni Ottanta. Quelli in cui Lucio Dalla cantava “Balla balla, ballerino”. Era l’epoca in cui la villa comunale ancora si popolava di bambini la domenica mattina. Avevo il diploma e mi ero iscritta all’università, ma col ritorno in Sicilia avevo dovuto rinunciare. Così avevo preso a lavorare in uno studio di consulenza, in un ufficio al primo piano in piazza. Eravamo tre ragazze e il titolare, un uomo di mezza età che morì una decina di anni dopo di diabete.

Mi occupavo di fatture, contabilità e dichiarazione dei redditi, sulla scrivania avevo sempre cumuli di fogli e numeri da sciogliere. Lavoravo più di otto ore al giorno, per non considerare le volte in cui facevo nottata. Sei giorni su sette, senza tregua e tutto per guadagnare i primi soldi. Centocinquantamila lire al mese che, una volta sposata, erano diventati trecentocinquanta.

Era il primo settembre del 1984 quando dissi di sì all’uomo che sarebbe diventato il mio unico e grande sostegno. Lo avevo conosciuto proprio lavorando in quel piccolo ufficio dall’illuminazione ingiallita. Era alto e magro, con l’espressione seria e il tono di voce cupo e profondo. Sorrideva poco e parlava ancora meno.

Un tipo dai modi diretti e schietti, di quelli che, come si diceva da quelle parti, “non te le mandavano a dire”. Senza peli sulla lingua né mezze parole. Mi chiamava “la torinese”, con una punta di malizia. Lo vedevo giù in strada, sul marciapiede di fronte al nostro balcone, sempre con gli occhiali da sole sul naso, un modello persol coi vetri scuri. Non se ne separava mai, neanche la sera quando preferiva tenerli sulla testa o appesi alla camicia.

Non mi stava simpatico né mi piacque le prime volte che lo vidi, chiuso nell’atteggiamento altezzoso con cui si presentava. Avevamo iniziato a uscire insieme senza aspettative, solo per il piacere e la curiosità di conoscerci. Era l’uomo che “non doveva chiedere mai” e così fu. Senza domandare il permesso, mi baciò il 12 aprile del 1981. Momento su cui tornò spesso a ironizzare negli anni, dicendo che il buio di quella sera lo aveva ingannato.

Aveva un cuore grande, riservato a pochi. Un cuore che sacrificava per chi lo meritava davvero. Non dispensava dolcezza né romanticismo, ma in cambio aveva una generosità d’animo rara e un altruismo prezioso. Ci sposammo tra mille difficoltà, con i soldi che non bastavano mai e un viaggio di nozze fatto in macchina, risparmiando ristoranti lussuosi e girando l’Italia in visita da amici e parenti.

Da quell’amore, fatto di quotidianità e semplici gesti, erano nate due bambine, due gemelle. Una con i capelli e gli occhi scuri, l’altra bionda e con gli occhi chiari, tutta suo padre. Facevamo a turno per la pappa e per il cambio dei pannolini, ma se la notte piangevano, era lui che cercava di farle riaddormentare, facendo dondolare come un pendolo l’unico quadretto appeso nel corridoio.

Col tempo, l’appartamento in cui abitavamo era diventato stretto e, mattone sopra mattone, avevamo costruito la casa dei sogni, umile e spaziosa. Non potevamo permetterci grandi cose, ma ciò che avevamo era tutto e non avremmo potuto desiderare di meglio. A noi bastava la quotidianità del caffè insieme al mattino o dello squillo che lui mi faceva appena stava per rientrare a casa dal lavoro per farmi capire che potevo iniziare a cucinare.

Mi riempiva di gioia quella sua passione per i film western e vedere più volte scene ormai imparate a memoria non mi pesava affatto. Anzi, spesso le recitavamo insieme. Amavo quando, seduto sul divano, ascoltava in silenzio quello che mi era successo durante il giorno e adoravo quando non sapevo mai cosa rispondere nelle sere in cui a tavola, scherzosamente, mi prendeva in giro per far ridere quelle bambine, divenute nel frattempo donne.

Lui era questo, il tenebroso dall’animo limpido e sincero. Quello a cui davo la buonanotte prima di addormentarmi e a cui passavo la palla quando le responsabilità diventavano troppe, quello che mi rassicurava e mi diceva sempre che non dovevo preoccuparmi.

Era l’uomo che non mostrava mai paure, neppure quando un dannato tumore gli stava strappando il respiro. Era quello che ironizzava su quel capo nudo, nostalgico dei capelli sottili che la chemio aveva portato via. Quello che, tradito dal cielo, non riuscì a rimanere quell’ultima volta in cui lo supplicai di non lasciarmi. E piansi.

 

(Racconto vincitore del concorso ‘Racconta la tua storia d’amore’ di Divine Delizie) 

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