Era sceso in spiaggia. Aveva corso per più di un’ora e, ancora sudato, era andato a sedersi sulla sabbia bagnata dall’umidità della sera e di un temporale che via via si avvicinava.

Il cielo si era tinto di grigio e le nuvole cariche di rabbia avevano occupato ogni angolo di quel prato azzurro, senza fiori né stelle.

Guardava il mare, come un pescatore alla ricerca di pesci per banchettare come un signore. Non voleva nulla, pensava e basta, lasciando che le onde si infrangessero nel riflesso dei suoi occhi e gli confondessero i ricordi, mescolandoli e cambiandone la cronologia.

Le parole non gli avevano mai tenuto buona compagnia. Al loro posto aveva sempre preferito il silenzio, perché non dicesse nulla in più di sé, nulla di sbagliato forse.

Dalla fronte colava ancora qualche goccia di sudore, gli attraversava il viso, fino a sciogliersi nelle labbra, salata e amara. Si sdraiò, sporcandosi i capelli, la maglia, la nuca. Respirava la libertà che il vento, che iniziò a soffiare, riuscì a prestargli, a patto che gliela restituisse intatta, senza graffi né crepe, prima di andare via.

Pensava a lei.

L’aveva conosciuta una sera per caso, dopo una pizza con gli amici. Riservata, intimidita, sebbene quella volta avesse bevuto qualche bicchiere in più. Non si era neanche presentata, era rimasta accanto alla sua amica, un passo indietro rispetto alle loro chiacchiere, forse per non essere invadente, forse perché non le interessava.

L’aveva osservata, senza farsi notare, con discrezione. I capelli erano neri come il buio in fondo alla strada, ci si poteva perdere fra quei nodi e gli occhi erano due castagne: rotondi e grandi.

Si erano soltanto salutati prima di separarsi. Lui l’aveva seguita con lo sguardo e lei si era voltata, prima di lasciare quel posto e girare l’angolo. Allora gli aveva sorriso. Con imbarazzo, con eleganza, con malizia. Ed era andata via.

Non l’aveva più rivista, ma l’aveva comunque cercata.

Guardava il mare, mentre il cielo sopra di lui diventava un lenzuolo pesante, pronto a ricoprirlo da un momento all’altro.

Rimase ad aspettare, senza preoccuparsi dell’ombra sul suo capo, della solitudine attorno a lui. In cuor suo, sapeva che rimanere ancora lì aveva un senso.

Così attese. Fu un attimo, un piccolissimo istante. Un fulmine venne giù all’improvviso, cacciato via da Dio per qualche colpa imperdonabile e si schiantò contro la terra, scegliendo di morire nel mondo, in un luogo così lontano per poter essere rimpianto da qualcuno.

Spalancò lo sguardo, incredulo. Ebbe un sussulto, si stupì, si spaventò, si emozionò e respirò profondamente. Poi iniziò a piovere e lasciò che ogni goccia, prima piccola e leggera, poi sempre più grande e pesante, gli bagnasse il viso.

Un temporale aveva bisogno di ore per prepararsi, per lasciare il segno. Per non essere dimenticato.

Lo aveva capito dalla vita: si doveva essere capaci di aspettare per qualcosa che valesse la propria pazienza e il proprio tempo.
Le cose più belle, in fondo, non cadono mai dal cielo, ma lasciano il Paradiso per tornare a peccare.

(Foto di Fabio Cafà, Fulmine nel mare)

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