Si era svegliata piangendo, per colpa di un brutto sogno.
“Tu e papà mi lasciavate da sola in un posto che non conoscevo”, mi aveva detto, asciugando le lacrime.
“Amore mio, ma era soltanto un incubo, vieni qua!”.
L’avevo stretta al petto, facendole sentire il mio cuore e respirando i suoi capelli al profumo di frutta e lavanda. Si era così alzata dal letto e, seguendomi, era venuta in bagno. Avevamo lavato i denti, come tutte le mattine, girando per due volte la clessidra azzurra che si trovava sul lavandino, accanto al rubinetto. Poi eravamo scese giù a fare colazione. Ogni gesto era un rito: la tovaglietta con i cagnolini per lei, quella con le fragole per me, due toast con burro di arachidi e una tazza di latte caldo. Papà, purtroppo, usciva sempre troppo presto da casa la mattina per mangiare con noi.
“Non voglio stare con Isabel oggi, voglio venire con te”, aveva mormorato, mettendo il broncio.
“Lo sai che non si può”, le avevo risposto, pizzicando con le dita le sue labbra. “Se ti comporti bene, ti prometto che questa sera ti leggo un’altra storia, l’ho scritta qualche giorno fa”.
“E di che cosa parla? Dimmelo, mamma, di che parla?”.
“Narra di una fata con le ali troppo piccole per volare. Tutte la prendevano in giro per quella sua particolarità e lei ne soffriva molto, fin quando, un bel giorno, capì che cosa doveva fare per volare come tutte le altre”.
Mi guardò stupita, con espressione tenera e curiosa.
“Ecco che cosa farai oggi con Isabel”, continuai. “Disegnerai sul cartone delle belle ali e poi le ritaglierai. Fatti aiutare da lei per indossarle e stasera ti insegno a volare, va bene?”
Fece cenno di sì con la testa emozionata. Mandò giù tutto il latte, lasciò sul piattino soltanto un angolino di toast, che mangiai al suo posto per non buttarlo e corse a prepararsi.
Salii anche io in camera per vestirmi. Ero in ritardo, quindi misi le prime cose che trovai sotto al naso: una gonna della sera prima e una camicia rosa a pois.
“Ho messo una gonnellina anche io, mamma!”, esclamò sbucando dal corridoio.
Le sorrisi e mi avvicinai per baciarla. Isabel, intanto, era appena arrivata e aveva già acceso la lavastoviglie in cucina.
“Ti voglio bene, piccola mia, ci vediamo stasera!”.
Mi abbracciò forte, come non aveva mai fatto.
“Non tardare però, io ti aspetto sveglia”.
“Promesso, sarò puntualissima!”.
La salutai e andai via, chiudendo dietro le spalle una porta che non avrei più riaperto e trascinandomi appresso il segreto di una storia che, purtroppo, non le avrei mai raccontato.
Lo capii soltanto dopo, quando dal cielo un aereo iniziò a volare troppo basso verso di noi. Sì, veniva proprio verso di noi.
L’ultima immagine, prima del boato, prima della paura, prima della fine, fu quella di mia figlia: seduta su un muretto, con quelle ali di cartone storte sulle spalle e le gambe a penzoloni.
Sorrisi, mentre una lacrima rigò il mio viso.
In fondo, lei era un po’ come me e col tempo avrebbe capito da sola come volare lo stesso con le ali piccole.
11 settembre 2001.
Torri gemelle.

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