L’altra sera, per la prima volta, scrivere di mio padre è stato difficile.
Ho trascorso più di tre ore, inoltrandomi nella notte, per mettere nero su bianco poco più di seimila battute. Fissavo il computer, impastando frasi e parole che non suonavano mai bene, frasi e parole che in verità non dicevano nulla né di lui né di me con lui.
Ho provato a sedurre i pensieri con le musiche che ascoltavamo, con le melodie che portano ancora oggi il suo nome e, faticando, sono riuscita finalmente a scrivere qualcosa che avesse il senso di lui.
Il tema era il ricordo, la memoria, unica traccia di un concorso nazionale a cui ho deciso di partecipare.
Per la prima volta, ho provato un’insolita sensazione di vuoto, come se avessi ormai usato tutte le parole che avevo a disposizione. Come se le avessi esaurite.
Davanti a quel foglio e a quello schermo, mi sono chiesta: che cosa posso raccontare di mio padre che non abbia già raccontato?
Forse, dopo sei anni, ho guardato, senza volerlo, l’altro profilo della realtà, quello “sbagliato” che ciascuno di noi ha e che nasconde per venire bene nelle fotografie. Mi sono affacciata alla finestra che non dà sul mare, ma su un cortile con le case alte e grigie tutte intorno, che chiudono ogni veduta e isolano l’immaginazione e le vie di fuga.
Per la prima volta, ho avuto la paura e credo anche la consapevolezza che, presto o tardi, esaurirò davvero le parole. Esaurirò i momenti.
Presto o tardi, arriverà per me e per la mia scrittura il giorno in cui avrò raccontato tutto. Il giorno in cui avrò messo nero su bianco, dall’inizio alla fine, i miei venticinque anni insieme a lui.
Purtroppo, i ricordi non li alimento e non lo faccio per pigrizia, ma perché da troppo tempo mio padre non lo vivo più.
Perché non c’è stato quando sono diventata giornalista pubblicista né quando ho compiuto ventisei anni, poi ventisette, poi ventotto. Non c’è stato quando abbiamo preso un cane, il nostro cane. Non c’è stato nella scelta di lasciare la redazione televisiva in cui lavoravo e nella paura di intraprendere nuovi impegni, nuove sfide e nuovi obiettivi.
La mia vita non è stata più la sua, non è stata più la nostra. Mi manca una parte di mio padre, che è quella che avrei dovuto raccogliere in tutto questo tempo per continuare a parlarvi di lui.
Ecco perché la scorsa notte sono rimasta ore e ore a fissare un foglio bianco e a buttare giù frasi a singhiozzo. È stato brutto, è stato brutto davvero.
La consapevolezza arriva sempre, prima o poi. Bussa alla porta del cuore con un pacco tra le mani e la raccomandazione di aprirlo con cura, prestando molta attenzione, perché il contenuto non si rompa.
Finiranno questi ricordi, così come sono finite le foto e le chiamate al telefono. Finiranno così come sono finite le abitudini che avevamo a casa e che mi davano una straordinaria sensazione di sicurezza, armonia ed equilibrio nel mondo.
Prima o poi, la mia pagina rimarrà davvero bianca e porterà di lui soltanto il titolo.
E allora che farò? Mi inventerò un modo, troverò l’ennesima consolazione a ciò che mi verrà tolto un’altra volta. Troverò rifugio nell’immaginazione, anche se è una parola che non ho mai sopportato, perché è come quelle donne che si fanno desiderare tanto e a lungo, ma non si fanno mai toccare.
Cambierò racconto, cambierò trama.
Non sarà più ciò che è stato, ciò che è accaduto, ma ciò che avrei potuto fare.
Forse vi parlerò di come sarebbero andati con lui tutti quegli episodi in cui in realtà non c’era.
L’importante sarà non fare domande. Non dirò mai di aver perso le parole e di non poterne più trovare delle altre. Vi dirò che con l’età cresce anche lo stile, che le esigenze si adeguano alle necessità e che non importa ciò che scrivi, ma per chi scrivi.
Reale o inventata, ogni mia lettera, ogni vocale o consonante che sia, ogni punto o virgola saranno sempre per lui.
Penserò a un altro modo per trovarlo, tutto qui. In fondo, devo ancora capire che cos’è che faccia più male: ricordare o inventare?
Quando riuscirò ad acchiappare uno dei due, saprò darvi la risposta. Fino ad allora, continuerò a rincorrerli nella speranza che, prima o poi, qualcuno di loro rallenti il passo e si lasci raggiungere.
Perché correre stanca sia chi scappa sia chi insegue e nella lotta per la sopravvivenza non si salva sempre chi va più veloce, ma spesso chi sa già dove andare.
(In foto: un trifoglio stropicciato che resiste al calpestìo pesante del mondo)