L’odore del mare l’ho conosciuto da piccola.
Ho imparato a respirarlo quando ero ancora minuta nelle forme, nell’altezza, nei pensieri e nelle paure. Mio padre ci svegliava presto, preparava per me e mia sorella una tazza di latte lucido e bollente, che era impossibile da bere e dentro cui ci si poteva specchiare.
Ci lavavamo, indossavamo vestiti vecchi e comodi e poco dopo eravamo già in macchina. Vedevamo l’alba per strada, con ancora addosso i brividi dell’aria del primo mattino.
Il mondo dormiva, a parte qualche fortunato e instancabile come noi che aveva già dato inizio alle danze di un nuovo giorno che forse lo avrebbe portato fino alla sera o forse no. Preso il cornetto all’uscita del paese, andavamo in spiaggia.
Ogni volta era un rituale: il rumore del secchiello contro le canne lunghe scandiva ogni suo passo e noi, con le gambe ancora troppo corte, gli andavamo appresso senza tardare.
Aveva una sediolina pieghevole, a tratti arrugginita, sulla quale si sedeva e attendeva paziente, sprofondando nel fumo della sua immancabile sigaretta che di pesci, sicuramente, gliene avrà fatti perdere parecchi, domenica dopo domenica.
Poco lontani da lui, io e mia sorella trovavamo qualsiasi occasione per giocare e trascorrere il tempo. Prima con un legnetto di fortuna, poi con qualche verme scappato al sacrificio e, infine, rincorrendo le onde avanti e indietro, in una lotta continua in cui una volta eravamo predatori e un’altra prede.
In entrambi i casi il rischio era sempre lo stesso: quello di venire rimproverate per esserci bagnate. Proseguiva così inesorabilmente, fino a quando la punta sottilissima di quella canna da pesca, ben piantata, non si muoveva.
Un tocco piccolissimo, poi un altro e infine due di fila, fermi e decisi, come chi dice di sì con un gesto del capo. Ecco, in quelle occasioni annuiva anche quel bastone lungo, colorato e moderno, come a dire a mio padre, che tanto l’aveva fissato, “ci siamo, preparati!”.
Si alzava immediatamente e con le braccia forti ne prendeva il controllo. Una mano tratteneva la canna e l’altra faceva ruotare il mulinello, avvertendo a ogni giro il peso di chi, dentro l’acqua, aveva capito tardi di essere stato ingannato. A volte riuscivano a liberarsi, non si sa come, altre volte no.
Non ho mai capito se andare a pescare ci piacesse oppure no, anche perché dopo un paio di ore avevamo già esaurito ogni passatempo. Eppure, quando la sera prima mio padre preparava tutto l’occorrente, saltellavamo con insistenza perché ci portasse con lui.
Forse erano le atmosfere che ci piacevano: il silenzio delle prime luci del mattino, la lentezza con cui potevamo fare tutto, senza fretta né paura che fosse già troppo tardi. Forse era il cornetto caldo alla marmellata al posto della normale merendina a colazione oppure la voglia di prendere parte a qualcosa che fosse da adulti e non da bambine.
Non saprei, so solo che, col senno di poi, tornerei indietro a quei giorni altre cento volte per cercare meno legnetti con cui giocare e fermarmi un po’ di più. Mio padre si consumava la vista, fino a far sciogliere il verde scuro dei suoi occhi, fissando quella canna alla ricerca del più piccolo movimento e così avrei dovuto fare anche io.
Non sempre, infatti, è facile capire quando la vita vuole che tu agisca e io, me ne accorgo adesso, avrei dovuto allenarmi di più.