Fra i tantissimi ricordi che mi legano a mio padre ce n’è uno che tengo nel cuore più di altri ed è quello del matrimonio di un suo collega di lavoro.

Io ero ragazzina e lui era più giovane e sempre bellissimo. Spalle larghe, gambe lunghe e occhi verdi nascosti dietro ai soliti occhiali da sole. Quel giorno, mia sorella aveva la febbre e mia madre decise di restare a casa con lei, così mi chiese: “Danielù, ci vieni con me?“. Mi preparai in fretta e, poco dopo, eravamo già in macchina.

Si sposavano fuori città, non ricordo dove, ricordo soltanto che, dopo aver parcheggiato, ci avviammo mano nella mano verso la chiesa. “Secondo me, papi, ci scambiano per fratello e sorella”.

Della somiglianza con mio padre sono sempre andata fiera: per me eravamo due gocce d’acqua, sia nel viso sia nel carattere, ma lui con qualche parola in meno e io con qualche parola in più.

Fu un pomeriggio semplice e diverso dal solito. Mi presentò, fiero e orgoglioso, a tutti i suoi colleghi, ai quali strinsi forte la mano, proprio come mi aveva insegnato.
Finita la messa, ritornammo a casa.

Noi due potevamo rimanere anche in silenzio nei nostri viaggi, potevamo persino non parlare per decine e decine di minuti, ma sentirci comunque completi e provare lo stesso fastidioso mal di gola di chi, invece, aveva chiacchierato per ore.

Un rapporto unico, credo. Ci bastava uno sguardo per dirci tutto. A me bastava per dirgli: “Papi, sono triste, ho paura” e a lui bastava per rispondermi: “Stai tranquilla, non è niente!”.

È questo forse ciò che manca di più: cercarlo nei posti in cui c’era e non trovarlo. A tavola. In giro per strada fuori dal lavoro. Sul divano. Davanti alla porta della mia stanza, quando rientrava a casa, per salutarmi con un bacio.

Cercarlo e non incrociare più il suo sguardo, padrone di tutte le parole e di tutte le frasi del mondo.

Eppure, quando hai amato e sei stato amato così tanto da qualcuno, la morte non è nulla. Ti ruba l’immagine dagli occhi, ma non la voce dal cuore. Ed è lì che la sento ogni giorno, ogni momento. È lì che la custodisco, si confonde con i battiti e con la tachicardia che a volte mi prende quando bevo un bicchiere di cocacola in più.

Scrivere per me è sempre stato naturale, ma scrivere di lui lo è ancora di più. Forse perché so che non potrà leggermi e non lo farò piangere o forse perché serve a me e basta. Forse perché un uomo come lui, un padre come lui vorrei che lo avessero conosciuto tutti.

Della somiglianza che ci legherà nei secoli dei secoli io andrò sempre fiera ed è un orgoglio che torna a brillare tutte le volte in cui qualcuno in me rivede lui e, senza neanche conoscermi, mi chiede: “Ma chi è tuo padre?”.

E io rispondo sempre: “Si chiamava Pellegrino Nicolò Francesco, ma per tutti era Franco e faceva il geometra. Lo conosceva?”.
“Come no! Grande persona, di poche parole, ma giuste. Un uomo perbene, come pochi, ma quanto fumava…sempre con la sigaretta accesa”.

Col fumo ammazzava il tempo, si concentrava, si rilassava alla guida, apriva e chiudeva le sue giornate. Eppure aveva un buon profumo, in cui adoravo sprofondare per stare bene.

Il timore, a volte, può essere quello di avere una marcia in meno rispetto agli altri, ma poi ci pensi, ci piangi su una notte magari e ti risvegli con l’unica vera certezza di sempre: chi nella vita ha perso un genitore, padre o madre che sia, non è indietro rispetto a nessuno, è stato soltanto più sfortunato ed è diventato più forte prima degli altri.

E questo basta per capire che tutto ciò che può far male forse non accade per caso e che, in fondo, un padre non smette mai di essere padre, neanche dal Cielo, lontano dal mondo.
Un padre non va mai via. Impara a nascondersi bene e basta.

(In foto, il porto e una rete ingarbugliata. Non usciva mai in barca, ma amava l’odore del mare e pescare in silenzio con una sigaretta tra le labbra)

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