Amava il mare.

Ogni pomeriggio, qualche minuto prima che il sole calasse, andava in spiaggia. Sfilava scarpe e calzini e a piedi nudi raggiungeva la riva.

Sedeva lì, a pochi passi dalla battigia e in silenzio si godeva lo spettacolo gratuito della natura. Sempre in prima fila, su una poltrona di granelli di sabbia forse un po’ scomoda, ma perfetta.

Quello delle onde era un suono che più volte aveva provato a raccontare. Lo aveva messo nero su bianco, ma la scrittura non era mai riuscita a restituirlo tale e quale. Era come se su quel foglio qualcosa stonasse, come se le note non fossero le stesse.

Così ritornava ogni giorno, sempre alla stessa ora, per lasciar parlare il mare, per ascoltarlo e forse per rispondergli. A volte sussurrava e faceva fatica a capirlo; altre volte, invece, urlava e prendeva a schiaffi il vento.

I suoi occhi erano dello stesso colore, due specchi su quel lenzuolo verde acqua, stesse sfumature, stesse macchie. Le dita lunghe e sottili, ondulate da anni di sport e le mani grandi.

Il silenzio era il rumore che preferiva, perché sapeva regalargli tutto. Nel silenzio l’eco vibrava senza dar fastidio, ogni suono si perdeva, si allontanava e poi tornava, come un boomerang o come un cane che sognava la libertà, ma la sera rincasava per la sua ciotola di carne e pollo.

Era un po’ così lui, come quel cane: un animale da collare, un animale da strade vuote e asfalto rovente.

Di anni ne aveva vissuti ancora pochi, eppure teneva il conto del tempo. Perso e atteso.

Che cosa voleva dalla vita? Lo scriveva ogni pomeriggio, davanti all’indirivieni del mare. Con un bastoncino di fortuna scavava lettere e parole, che la sabbia si divertiva a riempire in fretta come una clessidra capovolta.

Un amore. Una giornata di sonno. Il caffè con poco zucchero. Un’ora indietro. Un altro amore. Quello sbagliato. Una vita a metà. Una vita intera. Una vita e basta. Un acquario e qualche pesce dentro. Tutto il mare. Una stella. Un posto nel cielo. Un posto in terra. Una casa. Un nome diverso dal suo.

Il mare gli confondeva le idee e non se ne accorgeva. Proprio il suono di quelle onde, che non si lasciavano narrare, lo ingannava come il canto delle sirene, gli rapiva il senno e lo lasciava in preda a un momento, in balia delle sensazioni. Di tutto ciò che sapeva fargli bene e male insieme.

Ubriaco, ma nauseato. Brillo, ma infelice.

In fondo, dietro al profilo della città, il sole si scioglieva come burro. Scompariva piano piano per affacciarsi dall’altra parte del mondo, dove il giorno doveva ancora iniziare e lo attendevano per l’apertura del sipario.

La sera scivolava sul paese, le luci dei lampioni timidamente si accendevano una ad una e dalla strada arrivavano i rumori delle macchine che rientravano dal lavoro.

Si era alzato, aveva ripulito i pantaloni e tra le mani teneva già scarpe e calzini. Stava per andare via, quando una voce lo portò a voltarsi, a guardare alle sue spalle.
In lontananza, una ragazza correva verso il mare.
Era ancora inverno.

Ritratto 1.

(In foto, l’ultimo tramonto che ho fotografato. Era il 16 febbraio)

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