Aveva le mani strette in pugni pietrificati dal gelo della notte e gonfi per l’acqua e il sale. I panni che aveva addosso, oramai stracciati e inzuppati, scoprivano per metà quel corpo vestito di speranza e le labbra, fatte a pezzi, somigliavano sempre più a una linea sottile, quasi tracciata a matita, che rubava dignità a quel volto muto.

Ne avevamo contati settantadue quella mattina. Centoquarantaquattro braccia e altrettante gambe che avevano smesso di lavorare e di camminare. Centoquarantaquattro occhi che non avevano visto sorgere il sole, morti col disìo di un nuovo giorno. L’ennesima carneficina in quel mare che rimaneva azzurro, nonostante la disperazione e la paura fossero lì a galleggiare.

Un mare che continuava a specchiarsi nel suo cielo, credendosi ancora bello e limpido, sordo alle urla e ai pianti di pietà. Omicida, padre assassino di uomini e donne che avevano rinunciato a tutto, pur di salvarsi. Gente che era partita senza più un nome, né ricordi e sogni, per cercare soltanto di sopravvivere. Vittime sciagurate, affatto colpevoli, di una vita dannata. Una vita maledetta, indegna e infima, spregiudicata e meretrice, capace di vendere persino i bambini a quelle acque ciniche.

Li accarezzavo in silenzio, quei teneri angeli. Delicatamente, spostavo i capelli bagnati dai loro visi innocenti, illudendomi che avrebbero sorriso da un momento all’altro. Erano piccoli. Guardavo le loro dita ancora corte e tondeggianti. Sulla carne portavano, marchiati a fuoco, i segni di un’esistenza troppo grande per le loro spalle gracili.

Le cicatrici della guerra erano tatuaggi bianchi su quella carnagione mulatta, riflettevano il pallore della luna che, dall’alto del suo mondo, assisteva a un’altra strage umana. Una moria di anime sconosciute che si era lasciata abbandonare lì dalla corrente, proprio sotto ai nostri occhi, per ricevere degna sepoltura.

Erano venuti per vivere quei disperati, ma nel loro viaggio avevano dovuto fare a pugni con la morte in un ring in cui erano finiti al tappeto. Faccia a faccia con un destino che non si era lasciato impietosire né da donne gravide né da bambini col moccio al naso terrorizzati e uomini che su quei barconi, fino all’ultimo, si erano sforzati di mostrarsi coraggiosi.

Poco distanti, i vivi guardavano in silenzio. Erano stremati, respiravano a fatica e non comprendevano nulla, soltanto il dolore, che ci rendeva uguali. Non eravamo diversi da loro, eravamo solo più fortunati. Una fortuna che pesò come una colpa in quegli istanti in cui nei loro sguardi, persi nel vuoto, lessi sofferenza e gratitudine, sollievo e smarrimento. Si erano salvati nel corpo, ma erano morti nel cuore.

Stranieri in una terra che aveva dato loro una coperta per scaldarsi, ma non li aveva ancora abbracciati. Una comunità che, commossa, era accorsa in spiaggia, assistendo inerme al loro strazio. Davanti a noi una donna, passeggiando fra i cadaveri, aveva riconosciuto il marito. Si batteva il petto, si graffiava il viso e si aggrappava a quanti le passassero accanto, poi si piegò su sé stessa e così giù fino a mordere la sabbia per la rabbia. Prese a ingoiarla per soffocare anche lei. Mi avvicinai correndo, la raccolsi da terra e iniziai a scuoterla, facendole sputare quel suicidio. La strinsi forte perché si calmasse e le misi sulla schiena l’impermeabile da volontaria col mio nome sopra.

C’erano errori in cui non dovevamo cadere: il pregiudizio, la paura contaminante dell’altro e il sentirsi sicuri a casa propria, peccati che alla lunga avrebbero ucciso anche loro. Ne erano morti settantadue quella notte, ma ne erano sopravvissuti trentacinque.

Uomini e donne a cui donare una vita come la nostra, fatta di rispetto e dignità e bambini a cui assicurare il domani a ogni nuovo giorno. Vittime di guerra a cui dovevamo chiedere scusa e perdono al posto di un mondo troppo feroce per farlo. Un mondo che puzzava di sangue e non se ne accorgeva. Un mondo che, senza saperlo, si era ormai dannato per l’eternità, vantandosi di essere rimasto in vita.

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