Titolo: Cartoline dai morti
Autore: Franco Arminio
Casa editrice: Gransasso Nottetempo
Anno di pubblicazione: 2019
Numero di pagine: 169
Prezzo di copertina: 12,00 euro
Passaggio del testo preferito: “Ho detto agli altri morti: avviciniamoci, non ha senso stare pure qui ognuno per conto suo”

 

Ho incontrato questo libro a Torino. Stava lì, appoggiato ad altri testi e ben riposto in uno di quei scaffali pieni di colori e titoli diversi. L’unica copertina grigia con una scritta nera su cui si è concentrato subito il mio sguardo: Cartoline dai morti (scritto da Franco Arminio, Gransasso Nottetempo, 2019). Mi sono subito avvicinata, l’ho preso e, così come faccio sempre, ho visto l’autore, la casa editrice e ho aperto una pagina a caso: “Io sono uno di quelli che un minuto prima di morire stava bene”.

Sono sempre stata abituata a sentir parlare i vivi nei libri che leggo, a dar loro una voce forte, calda, reale. Con questo libriccino è stato diverso, la mia mente sussurrava ogni singola parola che rimbombava poi nel cuore come un’eco. Come se, da morti, si perdesse tutto, anche la propria voce. Come se, da morti, si potesse comunque scrivere ancora qualcosa.

L’ho letto con curiosità e anche con un pizzico di inquietudine, sfogliando pagine che spesso avevano soltanto due righe, abbastanza per dar loro un senso.
L’ho custodito come un bene prezioso, da tenere stretto per paura che qualcuno me lo strappasse dalle mani. Mi sono persino addormentata, lasciando che scivolasse sul cuscino senza pesare. Leggero come un’anima.
I brividi. Quelli li ho avuti per alcune cartoline, quando la voce si faceva piccola, femminile, nostalgica.

“Nella bara mi hanno messo tante bambole. E pure la lapide è piena di giocattoli. Mia madre a ogni compleanno mi compra una cosa nuova e me la porta”.

“Mio marito mi ha gettata nel pozzo. Gli è venuta una furia, una forza che non gli avevo mai visto. Ho gridato mentre mi trascinava, ma non c’era nessuno, solo le rondini facevano avanti e indietro per farsi il nido sotto il tetto della nostra casa”.

“Le mie sorella stavano aiutando mia madre a vestirmi. Poi è arrivato mio padre. È venuto vicino e mentre mi guardava a me è venuta voglia di tornare viva e abbracciarlo solo per un momento”.

Un libro che mi ha messo paura, sì. Che mi ha lasciato in silenzio tutto il tempo. Un testo che ho concluso riempiendo i polmoni per rubare un grande respiro. Per sentire una fitta nella schiena, un dolore sottile che mi facesse ricordare di essere viva. Che mi regalasse la consapevolezza della fine per catturare il mio frattempo. Per fermarlo in un ricordo, in un attimo che valesse il passato, il presente, il futuro.

Come si muore? Così come si vive forse, ma con meno coraggio e senza voglia. Perché spaventa lasciare e lasciarsi andare, perché siamo abituati a salutarci, non a dire addio. Perché la carne crea dipendenza. Ci copriamo di pelle e capelli. Teniamo insieme le ossa come pezzi di un puzzle da appendere al muro. Ci specchiamo nel vetro lucido che vela gli occhi. Ci spogliamo di coscienza per guardarci dentro, per cercare ancora qualcosa che vada oltre la terra.

“Mi sono sempre sentito affannato e fuori posto nella vita. Adesso finalmente riposo tranquillo e in pace nella tomba vicino alla mia”.

Sarebbe bello, quando accadrà, poter scrivere ancora una cartolina. Poter incidere nero su bianco le nostre ultime parole. Illudersi di trovare un modo, uno soltanto, per rimanere.
Per dire che amavamo la vita e che anche la morte, in fondo, non era poi così male.

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