Perché ho iniziato a scrivere? La domanda che accompagna la fine del mio 2019 è proprio questa. Perché?

Lo ricordo ancora: avevo sedici anni, era una sera di inverno ed ero nella mia stanza. Soltanto una lampadina accesa sulla scrivania mi teneva lontana dal buio attorno. Fuori tirava un gran vento e dalla finestra vedevo un albero piegarsi avanti e indietro, ora a destra, ora a sinistra, con una tale violenza da impietosirmi.

Presi un foglio e buttai giù una parola dopo l’altra. Ne feci un monologo: “Diario di una sedicenne” e per lo spettacolo di Natale una mia compagna di classe lo recitò sul palco. Nell’aula magna era un brusio di voci e risate continuo che, frase dopo frase, prese a scemare fino a tacere.

Merito suo, che riuscì ad attirare persino l’attenzione dei più distratti con la sua interpretazione e merito forse anche di quelle parole, messe nero su bianco senza vergogna e con una sincerità disarmante.

Quando finì, partì l’applauso contagioso di tutti, studenti e professori. Le avevo chiesto di non svelare il mio nome, di lasciare quel testo anonimo, perché mi imbarazzava, ma lei non mi diede retta e, prima di scendere da quel palco, rivelò la mia identità, indicandomi tra la folla. Centinaia di persone si voltarono a guardarmi e io sorrisi, nascondendo l’emozione.

In quei minuti, gustai il sapore buono della felicità.

Non ho mai smesso di scrivere da allora. Ho avuto alti e bassi, come in un rapporto d’amicizia autentico, ma non ci siamo mai abbandonate. Io non l’ho mai lasciata, la scrittura e lei non mi ha mai fatto sentire inadeguata, anzi. È riuscita, nel tempo, a svelarmi la parte più vera di me. A mostrarmi degli aspetti del mio carattere spesso soffocati dalla quotidianità. A liberarmi da tutto ciò che mi ha soffocato per farmi tornare a respirare. È stata un’Amica, alla quale devo tanto, forse tutto.

Mi ha salvato a sedici anni, quando mi ha indicato nel buio di una stanza la strada che volevo intraprendere. Mi ha salvato all’università, quando tutti gli altri vedevano in me le qualità del perfetto avvocato. Tutti, tranne io. Quanto ho pianto quell’anno, stretta in libri che non facevano per me…

Lei c’è stata, è rimasta, in silenzio, quando l’ombra di un tumore ha bussato alla porta di casa mia.

Ho sempre trascorso più tempo a scrivere che a studiare, lo ammetto. Ancora ricordo quando abbassavo all’improvviso lo schermo del pc per non farmi scoprire da mia madre e per farle credere che, in realtà, stessi ripassando per l’interrogazione del giorno dopo. Lei, che entrava e usciva dalla mia camera per conservare un maglione o per raccontarmi qualcosa.

Mio padre mi diceva sempre: “Io non è che non voglio che tu scriva, hai questa passione, coltivala, però prima togliti il pensiero dello studio”. Non ti ascoltavo, papi, lo so e lo sai anche tu. In questo, ahimè, non sono mai stata una figlia modello, ma in cambio ho raccolto granelli di felicità.

Ricordo che, quando iniziai a scrivere per il primo giornale, lo feci di nascosto, senza dire nulla a casa. Andai nella redazione televisiva della mia città, parlai con il direttore della testata e scrissi il mio primo articolo. Poi tornai a Catania, passai giorno e notte a studiare, mangiando con i libri accanto, fino a quando sostenni l’esame di ‘Storia della lingua italiana’ con un meritatissimo 30 e lode.

Chiamai subito mia madre per comunicarle il voto, certo, ma per dirle soprattutto la cosa più importante: “Vai in edicola e prendi Vision, a pagina 25 troverai il mio primo pezzo!”.

Cadeva dalle nuvole. Mai si sarebbe aspettata di ricevere una notizia del genere.
Feci così, al tempo, perché con una materia in più nel libretto avrei ricevuto con più facilità il suo consenso e così fu, nonostante le mille raccomandazioni di non farmi distrarre o addirittura risucchiare da quel nuovo impegno.

Negli anni ho continuato a scrivere pagine di diario, a inventare storie, ma anche ad affrontare sempre nuove sfide lavorative e non solo, fino a quando non è arrivato lui: blablablog.

Presto saranno due anni per la mia penna blu con i brillantini, che inizia in verità ad abbandonarmi. Adesso balbetta quando scrive, lascia vuote alcune lettere e la punta si è spaccata. Sono troppo legata a lei. Me la regalò mio padre tanto tempo fa.

È una penna banalissima, senza nulla di speciale. Una di quelle che recano il logo dell’azienda, ma per me è stata importante sin da subito.

Per lottare contro la fine inevitabile dell’inchiostro, le ho dato una vita sul web ed è diventata il logo di tutto, l’immagine più autentica di me.

Una penna, tante parole. Le mie. Le tue. Quelle che non ti ho detto. Quelle che spero ti arrivino, ovunque tu sia ormai.

Perché ho iniziato a scrivere? Per essere felice, direi. Per essere me stessa, per avere qualcosa oggi che potesse parlarmi ancora di mio padre. Per rendere eterno il tempo e allungarlo a dismisura. Per gustare il piacere della fantasia. Per gettare la mia àncora in un oceano di squali, troppo profondo per una come me che non ha ancora imparato a nuotare, ma che presto ci proverà.

Mia nonna mi diceva sempre: “Tu a dillu e u Signuri a fallu!”.
E io lo dico, ancora una volta. Nella vita voglio scrivere!

Buon 2020 a tutti, che possiate lottare a denti stretti per diventare quello che siete destinati a essere.

(In foto, sorridente con una foglia secca tra le mani, che ancora custodisco. Essere fragili, in fondo, è il miracolo della vita)

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