Un cucchiaino in una tazza di caffè che suona come il rintocco di una campana in lontananza. Una sigaretta fra le dita, spenta, che odora già di fumo. I capelli mossi sulle spalle, più scuri nelle punte. Gli occhiali da sole a coprire lo sguardo e le labbra strette in una smorfia, forse un prurito improvviso al braccio.

Lei è lì, a pochi metri dal suo tavolo e da un giornale del giorno prima con lo zucchero sciolto sulle pagine che tiene ancora fra le mani. Si nasconde dietro a quel finto quotidiano per scivolarle addosso. Come una lacrima o una goccia di sudore per non vederla piangere, va dalle ciglia in giù, morbido sulle guance, lento sulla bocca per scorrere così fino al mento e dondolare in quello spigolo di carne. Un salto fra i suoi seni, dischiusi in una camicia dai bottoni lilla che vorrebbe strappar via, uno ad uno, dall’ultimo al primo, per non finire subito. Lei ha le gambe nude, accavallate, la destra sulla sinistra e i piedi già stanchi, con una scarpa sfilata e penzolante sotto al tavolo. Le cade, sorride, si guarda intorno e lo scopre. Invadente.

Sorseggia il suo caffè ormai freddo, passa una ciocca di capelli dietro all’orecchio, inciampando con le dita nella perla opaca appesa al lobo e accende finalmente quella Lucky Strike. È una routine di gesti che impara subito. Lui, che una così non l’ha mai incontrata. Zingara elegante, femme fatale dall’animo gentile. Donna bambina, di cui si innamora senza chiamarla per nome.
La sigaretta finisce tra le sue dita e spira nel vetro di un posacenere. Lascia due monete sul tavolo, prende la borsa, un ultimo sguardo, un saluto di cortesia, forse di confidenza e va via.

È un giorno di metà settembre, uno di quelli in cui non piove. È giovedì, lo sa bene, perché il mercoledì sera c’è il poker a casa di suo cugino e ieri ha perso, come tutte le volte. Centoventi euro e la colazione da pagare al bar sul lungomare, quello con le vetrate sempre lucide e i cornetti più buoni del paese. È lì che aspetta, forse è arrivato in anticipo o forse sono in ritardo gli altri. Ordina un espresso per tenersi sveglio e su un vecchio scontrino trovato in tasca scrive qualcosa: “Oggi offro io!”. Il cameriere è già al suo tavolo con un piattino bianco, una tazzina dello stesso colore e un cucchiaino pulito, che nessuno ha asciugato.

«Lavori qui da molto?» gli sussurra, quasi a nascondere quella conversazione appena iniziata.
È un ragazzo a modo, uno di cui ci si può fidare o almeno così sembra.
«Due anni tra una settimana, perché? C’è qualche problema?» gli risponde cordiale.
«In realtà sì, questo non è lo stesso caffè che ha preso una ventina di minuti fa la donna seduta a quel tavolo»
Lo guarda perplesso, con l’espressione di chi si sente in colpa pur sapendo di non aver sbagliato. Come un bambino sgridato dalla madre davanti ai compagni di scuola, che trattiene il pianto per la vergogna. Un bambino che vorrebbe rispondere a tono, ma che si limita ad abbassare il capo, guardandosi le scarpe. Una è sempre slacciata e su quella è sicuro che cadrà.
«Gliene faccio fare subito un altro» dice, avvicinando la mano a quell’espresso per portarlo via.
«Non oggi, domani!»

In un attimo quello scontrino stropicciato scivola furtivamente nella tasca della sua camicia bianca, stirata e profumata. C’è uno sguardo di intesa fra i due, un sorriso complice, come se si conoscessero da una vita. Si allontana, scompare dietro al bancone mentre in dissolvenza gli altri, quelli del poker del mercoledì, varcano l’ingresso, parlando ad alta voce e sghignazzando senza troppa educazione. Li guarda, fa loro un cenno per farli avvicinare e benedice, imbarazzato, quel ritardo e quel tavolo, a pochi metri da lui, per fortuna ormai vuoto.

È venerdì, come da calendario ed è di nuovo mattina. Oggi è arrivato prima. Di quella donna ancora nessun odore. Quando la vede, infatti, c’è sempre nell’aria il profumo di margherite gialle che sentiva da piccolo in campagna: delicato e frizzante. Si siede al solito posto. Una coppia sta per accomodarsi al tavolo in cui incontrerà lei, ma prontamente li invita a spostarsi. Lo guardano indispettiti e abbandonano il bar. Due clienti in meno, ma in amore gli affari non contano. Tra le mani ha di nuovo il giornale di due giorni addietro, quello con lo zucchero sciolto fra le pagine e una macchia di cioccolato che prima non c’era. Qualcuno lo avrà toccato con le dita sporche. L’orologio segna le nove, forse ieri non era così presto. Ripassa le notizie, che ormai conosce a memoria.

Ordina un bicchiere d’acqua naturale e lo manda giù tutto d’un sorso, come se fosse alcool e lui un uomo pieno di pensieri da affogare. È settembre, ma sembra già inverno.
Oggi fa freddo, tira un forte vento e forse stavolta piove sul serio. I minuti si danno il cambio e le lancette segnano presto le dieci, poi le undici, le dodici e infine l’ora di pranzo.

Quel tavolino è rimasto vuoto, lei non c’è. È ancora seduto con lo sguardo perso su una sedia che non ha accolto il peso di nessun altro. Dietro di lui, poco distante, un giovane. È quel cameriere con la solita camicia bianca, stirata e un po’ meno profumata. Ha un’espressione seria. Gli si avvicina.

«Non verrà!» gli dice, sedendosi con lui. «Ha chiamato per avvisare. Voleva che glielo riferissi e che ti accompagnassi a casa. Mi scusi, che la accompagnassi a casa».
Ha recitato male il copione, ha sbagliato la sua battuta, si è corretto e forse l’altro se ne è accorto. Che farà? Magari strapperà dalla mente i ricordi, li mescolerà al presente e si sentirà confuso, estraneo, smarrito. Tradito.
Ha paura, mentre lo guarda spalancare gli occhi e cambiare d’improvviso espressione.
«Pap…», balbetta incerto, sta per dirlo, quasi singhiozza.
«Prepara i caffè, ragazzo» gli risponde incantato. «E lascia sul suo tavolo lo scontrino che ti ho dato ieri, è arrivata!».

La vede lì, nello spazio vuoto di un bar in cui la conobbe trent’anni prima e dietro a un cameriere che, in fondo, gli somiglia proprio tanto.

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