Mi sono persa.

È successo quest’estate. Ero in macchina da sola, al buio, in strade di campagna fuori città. (In)seguivo il navigatore che, tradito da un’interruzione non segnalata e da una connessione debole, ha smesso d’improvviso di funzionare, lasciandomi lungo un sentiero di ciottoli e alberi su ogni lato a cercare di cavarmela.

Ho proseguito, fino a quando, davanti a un bivio, ho dovuto fare una scelta: salire o scendere. Sono andata giù.

La via era stretta e più procedevo, più diventava impraticabile. Avrò percorso una quindicina di metri, poi mi sono fermata. Dovevo tornare indietro. La retromarcia faceva fatica, le ruote scivolavano e giravano a vuoto, sollevando terra e polvere e dietro di me non si vedeva nulla, soltanto nero, soltanto buio.

Il cellulare non aveva campo e i miei amici non avevano idea di dove fossi, erano convinti che li avrei raggiunti di lì a poco.

Ho avuto paura e, per la prima volta in vita mia, mi sono sentita sola. Sola, fino a quando non ti ho pensato. Fino a quando il mio cuore non ha sussurrato una delle parole che amo di più: papà.

Ho continuato a insistere, a far girare le ruote su quei ciottoli e a risalire piano piano dalla strada che avevo imboccato. Diversi minuti dopo ce l’avevo fatta, ma non bastava, perché mi toccava fare anche inversione di marcia: un incubo. Spazio troppo piccolo e macchina troppo grande.

A destra e a sinistra sempre buio. Ancora buio.

Andavo avanti e indietro lentamente, più e più volte, fino a quando non ho cambiato verso, direzione e sono ritornata da dove ero venuta. Ho cercato di affidarmi alla memoria visiva, che non sempre si è rivelata una mia grande alleata, ma quella sera con me è stata buona.

Ho rifatto esattamente il percorso che mi aveva portato fin lì e, quando il cellulare è tornato a fare il suo dovere, ho chiamato i miei amici, trattenendo la paura e dando loro tutte le indicazioni necessarie per trovarmi.

Perché lo racconto? Perché ogni tanto credo di essere cresciuta in fretta. Di aver detto a me stessa “Ce la fai!” troppe volte, nonostante poi sia riuscita a farcela davvero. Di aver sbagliato a nutrire un sentimento così terribile come la solitudine, quando un problema mi è sembrato più grande di me.

Come faccio a sentirmi sola, se vivi qui, nel petto, accanto al cuore? Eppure a volte succede.

Capita di cercare ancora le tue mani sullo sterzo di quell’auto che inizia a farsi vecchia. Capita di sentirti accanto, quando alla radio passa una canzone che ascoltavamo insieme e che, dopo tutto questo tempo, suona ancora come allora.

A volte succede di sentirmi sola, quando vorrei ridere con te per riavere indietro la mia risata: piena, gustosa, rumorosa. Succede, quando so di non poter più nascondere uno sbaglio, una bugia.

Che figuracce starò collezionando, già le immagino, papà!

Sette anni. E qui a volte manca un po’ il respiro, perché la vita in certi giorni ti stringe proprio come quelle strade di campagna e ti lascia al buio, ma con gli alberi su ogni lato.

Sei andato via col tuo corpo e con la voce, che ogni tanto ritorna nei sogni la notte. Ma tu no.

Tu non sei andato da nessuna parte, altrimenti non potrei spiegarmi tante, tantissime cose. Forse sono soltanto coincidenze o forse il mondo, a modo suo, sa come far parlare la vita e la morte per farle avvicinare, anche se per qualche secondo soltanto.

Ci sei stato, quando sono diventata giornalista pubblicista con un tesserino arrivato proprio nel giorno del tuo compleanno. Ci sei stato, quando ho scritto per partecipare a qualche concorso e sono stata subito scartata, facendomi capire una cosa importantissima: studia! Studia sempre, se vuoi diventare davvero chi sogni di essere.

Ci sei stato in tutti i miei sbagli, perché, senza ormai il tuo rimprovero, dovevo sbatterci la faccia. E ci sei stato quando mi hai fatto capire che avevo perso la via. Che avevo perso me.

Ti ho ritrovato, dopo sette anni, in un mandorlo in fiore, il nostro, che mi aveva tenuto d’occhio da lontano tutte le volte.

Non può tacere un amore così. Lo continuerò a urlare, anche quando non avrò più voce e fino a quando, con le rughe scavate in ogni centimetro di pelle, deciderò di venirti a trovare.

Fino a quel giorno, resterai qui a modo mio. Nel petto, accanto al cuore, per non morire di nuovo, un’altra volta, quando sarà così vecchio da non battere più.
Ti amo come si ama la vita: senza fine, papà.

(In foto un mandorlo in fiore, fotografato sulla strada che mi portava al Master in Editoria. Anche quel giorno c’eri. A modo mio!)

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