Era successo ancora. Un’altra volta.

Una parola sbagliata forse, una tazzina di caffè rovesciata sulla tovaglietta della colazione e lei non era più stata la stessa, la sua giornata non era più stata la stessa.

Si era dovuta nascondere di nuovo per giorni in quella casa che era diventata la sua prigione, il buio che le metteva paura.

Si era sposata giovanissima. Nel suo abito bianco aveva incantato tutti, persino coloro che avevano cercato di metterla in guardia, di farla aspettare, di farla desistere. Lei lo amava, amava quell’uomo, molto più grande, con tutta sé stessa.

Poco importava se a Natale non aveva gradito il suo regalo e l’aveva sgridata fino a umiliarla davanti a tutti. Capitava di certo anche ad altre come lei di essere offesa per qualche chilo in più sui fianchi o per un vestito troppo appariscente.

Accadeva sicuramente in tutte le coppie che un litigio, uno scontro verbale portassero poi a uno schiaffo, a uno spintone, a una porta sbattuta con rabbia e alla solitudine gelida di un pavimento su cui giaceva con il labbro spaccato e gonfio.

Lei tutte quelle cose non le capiva, le giustificava, sempre. Le accettava. Sempre. Non era felice, era delusa, triste, amareggiata, avvilita. Non ne parlava con nessuno perché, pensava, gli altri non avrebbero potuto comprendere. Bisognava essere davvero sensibili per riuscirci.

Dopo il sesso, la notte si addormentava da sola su un letto troppo grande in cui aveva il timore di perdersi e di non ritrovarsi, scomparendo per sempre. Non aveva mai voluto figli.

Di nascosto, faceva in modo che ogni violenta passione consumata troppo in fretta non avesse conseguenze, non durasse nove eterni mesi. “Non era una vacca buona, non era neanche capace a fare latte”, le diceva disprezzandola e lasciandola nuda e inerme.

Amava quell’uomo, ne accettava i difetti e ne cercava ancora i pregi. Forse era generoso, forse in fondo era altruista. Non era cattivo, no, era esigente. Non era violento, no, era forte e non riusciva a controllarsi.

Continuava a ripeterselo quando il disinfettante bruciava e un cerotto non bastava a coprire le ferite. Quando si riprendeva e il colore del viso tornava uniforme, senza parti più scure né escoriazioni, ritagliava per sé il suo attimo di libertà andando a mare e sedendosi su uno scoglio, sempre lo stesso.

Era il suo confessionale, lì si batteva il petto dolendosi per i suoi peccati e tornava a casa più leggera, come se il mondo l’avesse assolta.

Lei, che era vittima e non carnefice. Lei, che era succube e non amante. Le onde avevano sempre provato a dirglielo, a suggerirle di fare qualcosa, ma lei le guardava e non le capiva. Le sentiva, ma non le ascoltava.

Non dava retta alle onde. Loro non temevano gli scogli, ci sbattevano la faccia fino a rompersi e a perdere i pezzi. Loro li sfidavano gli scogli: c’era del coraggio in chi faceva la prima mossa, non in chi restava fermo. E questo lei lo aveva sempre saputo.

(In foto il mare di Gela, Sicilia) 

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